giovedì 16 agosto 2012

L'ultimo sguardo


 
Ho impacchettato chili di libri, scarpe e pupazzi. Ho guardato il campus che si svuotava in Addio, Svetlana e m’è scappato da ridere sapendo che invece mi verrà un po’ da piangere.
Oggi la Nina ha finito la scuoletta e ricevuto il suo certificato per risultati accademici eccellenti: infatti cantare Testa spalle ginocchia piedi mica è semplice come si pensa, eh.  Specie se fuori diluvia, dentro non si respira e l’amico Lewis senza un dente davanti ride e ti abbraccia forte per dirti addio.
Oggi l’ultima lezione, l’ultima volta che ho guardato l’orologio di Carr Hall per vedere se ero in ritardo. Oggi l’ultimo sguardo fuori dai finestroni di Axinn. Quando gli studenti se ne sono andati io son rimasta lì, ho alzato Tiziano Ferro e poi Paolo Conte a tutto volume e non ho fatto nulla. Solo me ne sono restata in piedi a fissare gli alberi e le seggiole basse di legno e la poca gente che c’era fuori. Ho camminato poi verso casa come ogni pomeriggio di queste quasi sette settimane, cercando di incastrare per bene negli occhi quello che vedevo, nell’ordine in cui lo vedevo, perché domani non l’avrei visto più così, come dopo la lezione stanca ma contenta, un passo lento dopo l’altro, senza fretta, senza fretta, ripensando alle parole e ai sorrisi.
Stasera abbiamo bevuto una bottiglia di Cava, finito le patatine blu, parlato di Philadelphia. E c’erano qui le persone che per me significano qualcosa. Sicché ero quasi felice. O forse del tutto, questo non lo so. Di certo però il salotto coi divani sporchi di Shannon street mi mancherà molto; e il portico bianco dietro da dove si vede il cielo come muta. Oggi per la prima volta da lì ho visto una marmotta. Un’immagine fra tante, io lo so, che nei momenti più impensati mi verrà a trovare.

domenica 12 agosto 2012

Appena qualche giorno

Manca appena qualche giorno e poi ciao, via tutto. Una meraviglia e un precipizio, questa sparizione. Perché ogni volta che si arriva alla fine - e la fine è proprio qui, la senti e l’annusi - andartene è quello che vuoi e non vuoi. Sette settimane sono lunghe; una vita. Bastano per abituarsi al latte freddo nella tazza bianca, alla biblioteca di mattina mentre la Nina è a scuola, alle presentazioni settimanali degli studenti. Loro sono belli e quando li guardi ti viene da sorridere, perché son tutti diversi e buffi e teneri e impauriti e sicurissimi insieme e arrivano in classe portando casse piene di ghiaccio o calici di prosecco. Hanno alle spalle storie e città che vorresti aver conosciuto, tutte. E forse non li rivedrai mai più. Magari qualcuno passerà per Bologna e allora vi abbraccerete ancora; ma ci sarà comunque l’assenza di una cornice che vi rendeva riconoscibili l’uno all’altro, che vi imprigionava sì ma anche vi conteneva e vi indicava la strada, vi proteggeva.
Manca appena qualche giorno e poi questo verde tutto intorno, queste nuvole basse, questi granai di metallo stagliati contro il cielo spariranno. Saranno trascinati da qualche altra parte insieme al rotolare delle ruote sull’asfalto, alla macchina rossa dove suona forte I heard it trough the grapevine e il finestrino aperto lascia entrare il sole con il vento e quello che credi essere odore di grano. In ogni prato un trattore John Deere taglia l’erba e in ogni casa sventola una bandiera e c’è almeno una sedia di legno sotto il portico. È lì che forse, da vecchia, t’immagineresti di stare. A guardare il niente con gli occhi lanciati oltre il tetto di legno rosso della fattoria di fronte.
Non so che fine faranno le persone che ho conosciuto qui. E le notti perdute a scrivere e pensare. Quelle albe indirettamente vissute, il sudore che s’appiccica alle lenzuola, i binari di ferrovia percorsi risalendo verso un posto che è inutile cercare perché tanto se ne sta lì, sì, proprio lì, dove credi di doverlo cercare?
Questo luogo, la sua lontananza dall’Italia che cerca forzosamente di rappresentare attraverso musica, cucina, poesia e parole, mi mancheranno. Sarà così strano alzare la testa e trovare grattacieli; guardare giù e vedere le frecce gialle schizzare via - invece dei conigli dalla coda bianca. Sarà strano non avere più intorno Joe, il suo sguardo che ti trova ovunque stando fermo; i capelli morbidi di TopoErre e i suoi umori sbilenchi ma buoni; le espressioni irresistibili di Dj Turi con quei vestiti sempre sbagliati. Persino il ciuffo di Rupert Sciamenna, cercherò a tratti d’intravedere dietro di me.
Io non lo so che resterà di queste settimane qui. Non so che cosa lascerò. L’ultima volta ne avevo un’idea chiara e dolorosa; avrei lasciato giusto quel paio di momenti e di persone che sai faranno parte della tua vita per sempre. Adesso chissà. Adesso forse lascio appoggiato in un angolo della casa Geeno lo stecchino. Però con me porto la Nina che balla e che ride e che canta e che mangia i Chips ahoy sporcandosi la bocca di cioccolato.

martedì 24 luglio 2012

Sparito


Il tempo qui vive di contratture e d’un dilatarsi strano, come moltiplicato. Corri, sei sempre in ritardo, stai perdendo qualcosa. Oppure te ne stai mezzora a far nulla sotto il portico, solo guardando le nuvole, lanciando lo sguardo oltre il parcheggio in fondo, aspettando che arrivi qualcuno. Poi qualcuno arriva sempre. E magari è l’amico eccezionalmente alto senza cui questo posto non avrebbe senso; oppure lo studente gentile che forse non capisce tutto ma sorride sempre d’un sorriso gioioso, lieto. Arrivi comunque alla fine di un giorno e ti sembra di averne vissuti almeno centomila. Nel mezzo hai cambiato umore, abito, cielo e temperatura. Molte volte. Senza riposo. Hai sfogliato programmi e persone con cui sederti a pranzo. Hai usato mille parole per dirne una.  Sicché ti piglia la voglia di sdraiarti sul letto e dormire per almeno una settimana. Chiudere gli occhi e non dire nulla. Solo silenzio e pace e le lenzuola del mercoledì che sono fresche di bucato.  Ma poi c’è la radio da preparare, il brunch da fare, Burlington da raggiungere. O un film, un incontro, una lezione, l’odore di funghi da spiegare ai ragazzi prima che sia il momento di cantare. Così ci sprofondi dentro, a questo sbattere di cose, e te ne lasci sopraffare. Ma sì, non ci perdiamo nulla. Tanto ti senti che questo tuo ritorno a Middlebury è un addio. Allora quel vialetto, il campanile della chiesa, tutti quei tralicci e la mensa dalle grandi vetrate assumono contorni quasi mitici anche mentre ce li hai davanti agli occhi: allunghi una mano ma già non li tocchi più. Sei via. Non esiste la rana che ti ha attraversato la strada, né la nube a forma di drago sopra il teatro e neppure la musica delle campane alle due e cinquantacinque del pomeriggio quando vai a lezione. Di sicuro, appena volti l’angolo smontano tutto e puf, via, sparito. È il bello e il terribile di questo posto: non esiste fuori da qui.

sabato 14 luglio 2012

Madison-Dixon Line

Neppure mezzogiorno e camminiamo sotto il sole verso il paese. Dice c’è un festival di musica, la sera, e vogliamo vedere se c’è un cartellone, un programma, qualcosa. Andiamo giù per la discesa con la casa di legno e pietra - la casa del misterioso gatto grigio; superiamo Ben & Franklin; oltrepassiamo il ponte e il fiume; entriamo nel parco davanti alla chiesa. E caschiamo a testa in giù dentro Mark Twain. Sparisce la scuola italiana, spariscono le lezioni di tecnologia, i film di Fellini, la mensa, la grande biblioteca con il Mac gigante che è il mio preferito e restano solo la musica, i cappelli di paglia e i piedi incrostati di nero dei bambini. Ci sediamo sotto un grande tendone, sopra seggiolacce di legno sbreccato, e ascoltiamo suonare le musiche del sud. Al di sopra della Madison-Dixon line non esiste più nulla. L’uomo dagli occhi di pietra blu suona una piccola tromba, bambini in costume con l’asciugamano al collo arrivano dappertutto e si siedono per bene intorno a noi: se ne stanno lì buoni ad ascoltare vecchie canzoni e farsi distribuire bicchieri di latte da enormi contenitori bianchi; ed eccolo lì, stai attenta, se guardi bene vedi pure Tom Sawyer dietro di te – il viso sporco e la mela rossa luccicante fra i denti. L’uomo del banjo ha un volto strano, sfatto, sembra Tom Waits prima di Tom Waits; ha occhiaie scure e profonde, come la sua voce. Sul palco si suona di tutto, dai cucchiai, alle ossa di mucca, al bottiglione di maple syrup vuoto. Fa uno strano soffio, caldo, sinuoso. Che bene s’accorda con questa mattina calda e ferma nel tempo. Appiccicosa di Mississippi. Hanno tutti facce antiche: la bellissima bambina bionda dalle lentiggini, il ragazzino grasso con la testa tonda e gli occhi piccoli e il suonatore di sousaphone che pare un predicatore. Ti sembra che potresti vivere così, sorseggiando caffè bollente e ascoltando suonare il fiddle che poi sarebbe un violino, quasi per sempre. Quei piedi battuti sul palco, quei musi sudici di bestioline che addentano mele, il suono buffo della cornetta, lo strappo del banjo, le mani che picchiano, il caldo che ringhia: l’America è tutta qui. Puoi vederla e agguantarla. Senti come scende giù bene questa sensazione di buono, e di casa. Senti come s’accoccola nello stomaco. E’ il 1876, tu sei Becky Thatcher e stai per perderti dentro la grotta insieme a Tom. Non ci sarà mai più nulla di tanto avventuroso nella tua vita, questo lo sai per certo.

lunedì 9 luglio 2012

E una notte lasciasti portarti via

Questo posto l’ho detto che è esagerato. Mutevole come le nuvole che si deformano e spazzano il cielo di continuo. Capita che te ne stai appoggiata molle su un autobus che torna nel tramonto da Burlington a Middlebury, con la Nina che ti dorme addosso, dopo una giornata di fuga da tutti, verso gli acquisti e il Frappuccino di Starbucks e un Gap che ti stava immobile nella memoria perché era ciò che eri, una volta. E scorre il paesaggio il verde le mucche i granai rossi le case di legno il maple syrup che dondola sui cartelli e perfino i motel con la piscina sulla strada, sì, anche qui in Vermont. Scorre via tutto, felicità compresa, che s’impasta di quel senso di tempo che passa e rotola. Poi la sera balli e bevi. Il sudore s’appiccica ai capelli miei e della Nina, che ha gli occhi gioiosi e le gambe svelte. Siamo tutti in una bolla di luci rosse e blu che s’accendono si spengono. Tutti ridono, tutti saltano. Il long island ice tea è più buono dell’ultimo che hai preso. Acchiappi il nocciolo dolce dell’estate, della scuola, di Middlebury, di tutto. Cambi le scarpe per tornare a piedi nella notte. Sorridi sempre. Succede ancora che ti metti l’abito a fiori e ti arrampichi su verso Mc Collough e il ricevimento pomeridiano delle scuole di lingua. C’è vino bianco francese, vino rosso portoghese più un duo russo che suona Kalinka e indossa stivali di pelle. Il pessimo Chardonnay e i raspberries con panna amplificano il senso di stordimento lieto, di stentoreo credersi per un attimo nel posto giusto. Del resto le striature che colano rossoviola dietro i vetri dicono che certo, è così, non ti stai sbagliando: guarda là che bellezza. Pigliatela tutta, stampatela negli occhi. Invece poi magari la sera dopo correte via in due dalla mensa, dal pollo al curry che puzza, dalla gente, dal parlarsi sempre. Il campus è vuoto, l’aria vi viene incontro fredda; forse l’estate è finita e bisogna già partire. Vi rifugiate sole al Grille. Aspettate i vostri hamburger. Sotto vanno canzoni americane. Il toc, toc, staaaaaaac delle palle del biliardo scandisce il tempo della vostra permanenza là dentro. E’ bello. E’ un po’ triste quell’essere lì e non incontrare nessuno dei visi che un tempo sembravano viverci dentro. E’ uno di quei momenti in cui ti manca tutto. Però pazienza, però chi se ne frega. Apri con un gesto secco un’altra bustina di Hellmann’s e vabbe’. Ma soprattutto alla fine ti viene in mente che per il laboratorio sulla canzone devi mettere per forza Guccini. Così cominci a rileggere un po’ di testi. Cominci a riascoltare. Commetti un’idiozia dopo l’altra. Da bionda senza averne l’aria alle luci nel buio di case intraviste da un treno al lucido scirocco. E infine Farewell che avevi dimenticato e ti succede di ritrovare qui, in una camera con le tapparelle bianche in Shannon street, Middlebury, Vermont, America. Tutte quelle lacrime, si vede, se ne stavano da qualche parte e per qualche cosa dovevano proprio venire giù. Il maglione sformato, la chiave segreta del mondo, i vent’anni in cui si sapeva sorridere valgono bene lo struggimento che piglia in questa notte che ti schiaccia giù e ti fa sentire sola, minuscola, grata per tutto quello che gli anni hanno risparmiato di te, senza stritolarlo troppo.

venerdì 6 luglio 2012

Vestito giallo

La cena con New York strip steak boneless, Cape Cod Kettle e Corona gelata è stata senza dubbio la parte migliore della giornata. Mentre fuori sfuriava un caldo malato, noi dentro si rideva del rivolo di sangue che la Nina lasciava colare - perfetto predatore con la tanto desiderata vittima fra i denti.
O forse invece no, mi sbaglio, e il momento più bello della rutilante giornata del Concertone è stato il finale. Quell’incredibile, surreale momento in cui una bambina dal lungo vestito giallo è sfrecciata sul palco con i fiori in mano. Alla velocità di un razzo, una stella cadente, un desiderio. Applausi, sorrisi, ciao.

giovedì 5 luglio 2012

Alla finestra

I corvi qui gracchiano soprattutto prima del tramonto. Sono tanti, grossi e se ne stanno là in mezzo al verde brillante con quell’aria da: qui c’è mio e te vattene più in là. I corvi mi piacciono di più degli scoiattoli, che ti tagliano la strada all’improvviso e hanno denti rapaci; occhi vacui da piccolo animale stupido, che potrebbe sbranarti se solo allungassi la mano per accarezzarlo.
Questo è un luogo esagerato; e mi piace. Se piove, o ti rinchiudi in casa oppure esci ma l’ombrello che lo pigli a fare. Tanto l’acqua ti sciaguatta tutto, ti sbatte in qua e in là e mica puoi difenderti. Il sole invece brucia sulla pelle, cammini come sotto una lente di vetro puntata addosso, ti lasci arroventare finché non entri nella Davis family library, o alla mensa di Atwater, e ti si ghiaccia tutto, giù giù, fino in fondo alle ossa.
Sono già nove giorni che mi trovo qui. Le lezioni sono iniziate, ho rivisto volti noti, camminato per vecchie strade e cercato di ricordare come mi sentivo allora. Avere la Nina con me cambia tutto. Ma non è solo quello a trasformare le cose. Quel senso feroce di solitudine, quel meraviglioso feroce senso di solitudine non c’è più. Si è frantumato fra cellulari, skype e wifi. L’isola è sparita. Non mi sento più sbalzata fuori dal mondo, via da tutto, persa e libera. Piuttosto sono qui, eccomi, pigliatemi e guardate che c’è da vedere. Allo stesso tempo tutto per ora mi scorre addosso in modo superficiale. Non c’è nulla che mi sembri davvero di trattenere; mi pare di guardare tutto da fuori, come in attesa di vedere accadere qualcosa. Un Drogo vermontiano che sta alla finestra. Ho delle mancanze forti. Di amici che stavolta non ci sono, di luoghi amati, di casa. Per esempio mi manca il Grill, anche se il Grill esiste ancora: eppure me l’hanno rubato, è rimasto fermo e vuoto in qualche anno imprecisato di quelli che ho perso e ciao, dove lo ripesco, io, adesso?
Quello che amo però è sempre lo stesso: il mutare continuo e sorprendente delle nuvole, le passeggiate sfiancanti in paese e il brunch oltraggioso del fine settimana. Rintanarmi in una biblioteca, girare senza meta là dentro solo per vedere quanto tutto è bello e ordinato e comprensibile. Tutti quegli studenti che leggono o dormono piegati su un computer, che portano via le banane dalla mensa, che hanno attaccato al collo il cordino con la scritta Middlebury College; e le chiavi che dondolano. Il caffettone nel bicchiere di cartone. Shaw’s e i suoi scaffali pieni zeppi di tutto. La voce di Joe. Mi piace stare qui. E’ un posto che mi appartiene e quello che era una volta mi manca. Però magari poi lo ritrovo, chissà. Un po’ com’è successo ieri che fuori pioveva, le luci in casa erano basse e uno dormiva sulla poltrona, l’altra cantava con la sua vocina e tutti bevevano Redwood creek dentro enormi bicchieri rossi. Anche quelli, i bicchieri rossi, non sono cambiati.